La morte improvvisa di una persona cara, per cause naturali o no, catapulta in un dolore intenso e totale. Tutti temono di imbattersi prima o poi in un evento tragico, ma non si è mai abbastanza preparati ad affrontarlo. Tale prospettiva genera infatti ansia e paura, quindi, di solito, viene allontanata dal pensiero cosciente come tutto ciò che suscita sentimenti negativi. Spesso chi è coinvolto afferma di essere venuto a conoscenza di esperienze simili, ma di aver sempre pensato, in fondo, che a lui non sarebbe potuto capitare. Quindi, la morte improvvisa di un parente o di un amico genera, oltre al dolore, un sentimento altrettanto alienante, cioè lo stupore. Il fatto che fosse impossibile, appena pochi istanti prima, anche soltanto immaginare l’evento tragico, sconvolge perché provoca una rottura nella continuità dell’esperienza. Non sembra poter essere accaduto veramente, risulta difficile da realizzare, assurdo, impensabile, a volte anche indicibile per quanto scollato dalla realtà precedente. Per questo sono necessari anche giorni, se non mesi, per consapevolizzarsi dell’accaduto. Diventa fastidioso perfino informare parenti e conoscenti o rispondere alle loro domande, perché ciò significa confrontarsi con qualcosa che ancora non è stato elaborato, che ancora non sembra vero.
Ci si ritrova a dover organizzare il funerale e sbrigare pratiche burocratiche senza avere piena coscienza di quel che sta accadendo. Per questo spesso tali incombenze vengono delegate a chi è meno coinvolto e quindi più reattivo. Se al momento delle esequie l’abbraccio dei partecipanti può confortare (o in certi casi infastidire, perché avvertito come un’invasione nell’intimità del proprio dolore), dopo la cerimonia inizia il percorso di elaborazione e di confronto con il senso di vuoto lasciato. Spesso la consapevolizzazione lascia il posto all’avvilimento e alla rabbia. “Perché proprio a lui/lei?”, “Perché a lui/lei e non a me?”, “Perché così in fretta?”, “Perché in quel modo?”, sono le domande che spesso si pone chi rimane a farsene una ragione. Un altro motivo di rabbia e rimpianto consiste nel non aver potuto fare molto o niente, come pure nel non aver avuto il tempo di salutarsi, di dirsi le cose che si sentono e che più contano. Si prova rabbia anche perché la persona amata non ha potuto “sistemare le cose”, salutare, dare disposizioni.
Nella moderna cultura occidentale la morte rappresenta un vero e proprio tabù, non si nomina. Tutto ciò che riguarda il morire è oggetto di censura in un mondo che aspira all’eterna giovinezza. La morte non appartiene più alla natura delle cose, come accadeva nelle società di una volta, in cui tutta la comunità si stringeva per giorni attorno alle famiglie in lutto e le accompagnava con veglie e preghiere. Oggi manca lo spazio culturale e il linguaggio in cui inscrivere la morte. Nessuno sa più cosa dire e come comportarsi in questi frangenti. Parlare del morire come un evento naturale può sembrare paradossale per chi vive una perdita intollerabile e difficile da comprendere. E’ in effetti inaccettabile accettare la morte, ma la sofferenza può diventare un’esperienza più vivibile, da un punto di vista psicologico e sociale, se comunicata e quindi dotata di significato. Il dolore non si supera mai completamente, ma può trasformarsi se si restituisce senso al ciclo di vita compiuto dalla persona amata e alla nostra relazione con lei.